venerdì 26 ottobre 2012

Cinquant'anni dopo Mattei, la folle rinuncia allo Stato imprenditore

Non so se ci avete mai fatto caso ma nel mondo anglosassone, dove è stato coniato, il termine radical indica sostanzialmente la sinistra estrema. Da noi i radicali sono un partito ostaggio di un vecchio bacucco, che dopo le meritorie battaglie degli anni settanta e ottanta, è impazzito, si è alleato con Berlusconi e gli ex missini e si è votato al capitalismo più sfrenato. Per non parlare del termine liberal, che negli Stati Uniti è un modo elegante per dare a qualcuno del comunista. Da noi, invece, quelli che attualmente si definiscono liberali sono di solito appecoronati sulle posizioni dei privati e hanno lentamente condotto una battaglia vincente per infondere nell'opinione della maggioranza (principalmente quindi coloro che un'opinione non ce l'hanno) la convinzione che tutto ciò che è pubblico è merda e che andrebbe privatizzata anche l'aria.
Un delitto. Il vero delitto. Perché in questo modo si fa fuori l'unica vera possibilità di sviluppo e di rilancio dell'economia con criteri di equità.
In questi giorni ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, scomparso il 27 ottobre del 1962 precipitando con il suo aereo privato nelle campagne di Bascapè, in provincia di Pavia. Un "incidente" da sempre considerato sospetto e nel 2005, dopo la riesumazione del cadavere e le nuove indagini chimiche rese possibili dalla tecnologia, definitivamente classificato come attentato. Mattei si era fatto moltissimi nemici da quando nel 1947 invece di liquidare l'Agip, azienda fondata dal fascismo, ne aveva fatto la base per la creazione di un colosso energetico, l'Eni, in un paese sostanzialmente privo di risorse di quel tipo. Democristiano assai atipico, di stampo decisamente più liberal (lui sì), Mattei era fermamente convinto della necessità della presenza dello Stato nell'economia, perché solo lo Stato può essere l'imprenditore che non è animato esclusivamente dal profitto e, nel caso, i soldi li reinveste per garantire lo sviluppo e non se li porta alle Cayman. 
La sua Eni fu uno dei traini fondamentali del boom economico italiano e nel giro di pochi anni i veri potenti (la Cia, la mafia, le sette sorelle, perfino l'Oas francese che gli contestava l'appoggio al Fronte di liberazione algerino) diventarono suoi avversari dichiarati. Questa gente a un certo punto non te la manda più a dire e ti elimina. Come fece con lui, con un carica di esplosivo piazzata sul jet all'aeroporto di Palermo, che si innescò durante il suo viaggio di ritorno dalla Sicilia, dove era stato scoperto da poco un imponente giacimento di metano.
La storia di questi cinquant'anni è nota. 
L'Eni è rimasto un colosso dell'industria italiana, ma è diventato oggetto di spartizione politica, passando dalla Dc alle grinfie del Psi craxiano, e annoverando alla sua guida personaggi discutibili e spesso coinvolti in procedimenti giudiziari. Paradossalmente all'epoca di Mattei a scagliarsi contro il "carrozzone di Stato" erano le sinistre, oggi se provate a dire che ci vuole la mano pubblica vi danno come minimo del comunista.
Oggi i "liberali" sono le banche, le istituzioni finanziarie, i fondi di investimento senza controllo, il mercato energetico in mano alle multinazionali e ad una manciata di sceicchi corrotti e dittatori, le aziende come la Fiat, che "pubblicizzano" le perdite e privatizzano i profitti da decenni, i grandi evasori fiscali, i manager della Bocconi. Per ironia della sorte, il paese si trova in una fase analoga a quella del dopoguerra, dove non esistono una vera concorrenza, né un vero mercato, ma solo oligarchie e cartelli, dove è stata quasi del tutto cancellata la produzione e dove prevale l'arretratezza tecnologica a infrastrutturale al punto da avvicinarci ai paesi del terzo mondo (che non si dice più ma ci siamo capiti).
Solo che oggi non c'è un Mattei, né un'Agip da cui ripartire. E la sinistra si impicca nel suo dialogo con la finanza e con gli imprenditori che fanno rientrare in Italia i capitali grazie agli scudi fiscali.

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